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Articolo: Il risarcimento del danno nei contratti a tempo determinato illegittimi del settore privato

approfondimento di Eufranio Massi per il n. 149 della rivista “Il Mondo del consulente”.


  

IL RISARCIMENTO DEL DANNO NEI CONTRATTI A TEMPO DETERMINATO ILLEGITTIMI DEL SETTORE PRIVATO

Il contratto a tempo determinato non ha mai “pace” essendo sottoposto a continui interventi sia del Parlamento che della Magistratura: ora (ed è questo il motivo della breve riflessione che sto scrivendo) anche la Commissione Europea con la procedura di infrazione n. 2014/4231 ha indirizzato gli strali su tale tipologia contrattuale ed il Governo, per non incorrere, in pesanti sanzioni di natura economica, si è trovato costretto ad intervenire sia per i rapporti del settore privato che per quelli del settore pubblico.

Altre modifiche al contratto a termine sono, peraltro, annunciate, a breve, con l’entrata in vigore del c.d. “Collegato Lavoro”: mi riferisco alla disposizione che attua l’art. 7 del D.L.vo n. 104/2022 con l’individuazione del periodo di prova proporzionale nei rapporti a termine, mi riferisco alla interpretazione autentica della normativa sui contratti stagionali, finalizzata a “bloccare” gli effetti della sentenza n. 9243 del 4 aprile 2023 della Corte di Cassazione.

Tale tipologia contrattuale risente molto delle questioni ideologiche-politiche che sono dietro alla cancellazione delle causali, alla loro rigida reintroduzione avvenuta con il D.L. n. 87/2018 (c.d. “Decreto Dignità”) ed al loro successivo affievolimento che rimanda l’identificazione delle condizioni alla contrattazione collettiva, anche aziendale, sottoscritta dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale e, in mancanza, sia pure a tempo (al momento, fino al 31 dicembre prossimo) ad un accordo tra le parti contraenti sulla base di specifiche esigenze tecniche, organizzative e produttive.

Tutto questo genera una serie di difficoltà in chi deve operare e, soprattutto, i datori di lavoro si trovano alcuni problemi non indifferenti nel caso in cui, dopo i dodici mesi acausali, intendano rinnovare o prorogare i contratti apponendo, necessariamente, delle condizioni. Da ciò discende, spesso, una ritrosia a prolungare i rapporti a tempo determinato oltre l’anno, a scapito degli stessi lavoratori che, pur nella temporaneità dei contratti, non hanno quel minimo di sicurezza.

Ora, con il D.L. n. 131/2024 (c.d. “Decreto anti infrazioni”), convertito, con modificazioni, nella legge n. 166, il Legislatore, ottempera ad una serie di prescrizioni comunitarie, su materie diverse, concretizzatesi negli anni trascorsi contro il nostro Paese e, per evitare procedure di infrazione e condanne, ha varato alcune disposizioni che hanno lo scopo di bloccarne gli effetti negativi.

Tra le misure adottate rientrano anche alcune disposizioni che, modificando sia l’art. 28 del D.L.vo n. 81/2015 che l’art. 36 del D.L.vo n. 165/2001, rivedono la materia della indennità risarcitoria in presenza di contratti a tempo determinato illegittimi sia nel settore privato che in quello pubblico.

In questa breve riflessione mi occuperò del risarcimento del danno in caso di contratto a termine illegittimo del solo settore privato, argomento che interessa, molto da vicino, i consulenti del lavoro, chiamati, talora, a risolvere questioni di interpretazione e di svolgimento contrattuale dei rapporti a tempo determinato.

L’art. 11 ottempera alle prescrizioni contenute nella procedura di infrazione con cui gli organismi comunitari hanno contestato all’Italia che i contenuti relativi alle disposizioni che trattano la materia del risarcimento del danno nei contratti a termine illegittimi, sono poco “dissuasivi” nei confronti dei datori di lavoro, in quanto il tetto massimo previsto per il risarcimento forfettario che accompagna la conversione del rapporto in contratto a tempo indeterminato, sono ben “poca cosa” in caso di maggior danno subito dal lavoratore..

Il Legislatore è intervenuto sull’art. 28 del D.L.vo n. 81/2015 riscrivendo, in parte, il comma 2 ed abrogando il comma 3: afferma il comma 2 (nella parte in cui è rimasto invariato) che in caso di conversione di un contratto a tempo determinato illegittimo, con reintegra nel posto di lavoro, il giudice ordina la corresponsione, per il periodo di “mancata occupazione”, una indennità risarcitoria onnicomprensiva il cui ammontare è compreso tra 2,5 e 12 mensilità calcolate sull’ultima retribuzione di riferimento per il computo del trattamento di fine rapporto: con tale indennità viene ristorato il pregiudizio subito dal lavoratore, ivi comprese le conseguenze retributive e contributive.

Con il successivo comma 3, ora abrogato, si disponeva che in presenza di accordi o contratti collettivi, anche aziendali, che prevedevano l’assunzione con contratto a tempo indeterminato, sulla base di specifiche graduatorie, di lavoratori assunti in precedenza con contratto a termine, il valore forfettario massimo che, in linea generale, era di 12 mesi, veniva ridotto a 6.

Tali scelte, operate, a suo tempo con il D.L.vo n. 81/2015 avevano un preciso obiettivo; quello di affrancare il datore di lavoro dalle conseguenze di decisioni giudiziali giunte dopo molto tempo, ponendo un tetto massimo di 12 mensilità all’indennità risarcitoria e attribuendo alla stessa un contenuto forfettario che, peraltro, aveva, da tempo, trovato conforto nella sentenza n. 303/2011 della Corte Costituzionale.

Ora, quali sono le conseguenze della nuova previsione normativa posta in essere per ottemperare alle richieste di Bruxelles?

Quella principale è il possibile superamento del regime “a forfait” compreso tra 2,5 e 12 mensilità, tutte le volte in cui in giudizio venga accertato un “maggior danno”. Infatti, dopo il primo periodo del comma 2 è stata introdotta una frase con la quale si stabilisce che “resta ferma la possibilità per il giudice di stabilire l’indennità in misura superiore se il lavoratore dimostra di aver subito un maggior danno”.

Ora è evidente che, anche sfruttando i tempi necessariamente lunghi della procedura (180 giorni il termine massimo per impugnare) che si accompagnano agli ingolfamenti delle sezioni lavoro in molti Tribunali del nostro Paese, la parte ricorrente punterà a dimostrare il “maggior danno” che, nella maggior parte dei casi, è determinato dal lungo tempo trascorso dalla fine del rapporto fino alla sentenza di reintegra.

La questione relativa ai contratti a tempo determinato illegittimi (che hanno rappresentato un grosso momento di frizione e di controversie giudiziali nel periodo di vigenza del D.L.vo n. 368/2001) è più frequente di quanto si pensi (numero delle proroghe o di rinnovi oltre le previsioni legali, adibizione del dipendente a mansioni completamente diverse rispetto a quelle scritte nella lettera di assunzione, causale di adibizione diversa da quella indicata nel contratto individuale, superamento del limite massimo, utilizzazione degli accordi per rapporti a termine nelle stagionalità in modo non conforme alle disposizioni legislative, ecc.). Di qui, a mio avviso, la necessità che i datori di lavoro, con l’ausilio dei professionisti che li assistono, stiano particolarmente attenti a fare un uso corretto delle disposizioni relative ai contratti a tempo determinato.

Appare evidente come in situazioni di questo genere ove si prospetta un lungo iter giudiziale per la definizione della controversia, sia sempre opportuno, per i datori di lavoro, cercare di trovare una soluzione conciliativa nelle sedi appositamente previste dagli articoli 410, 411 e 412 – ter cpc (commissione di conciliazione istituita presso ogni Ispettorato territoriale del Lavoro, sede sindacale, commissioni di certificazione, negoziazione assistita). Questo aspetto va, assolutamente, curato per non avere “brutte sorprese” in sede di giudizio.

Alcuni possibili emendamenti pensati da addetti ai lavori non sono stati recepiti nel dibattito parlamentare. Mi riferisco, ad esempio, alla riduzione dei tempi per impugnare in giudizio, alla possibilità di una sezione specifica all’interno dei Tribunali per ridurre i tempi del contenzioso, o all’aggancio del “maggior danno” subito dal lavoratore a comportamenti attivi dello stesso che, nel periodo antecedente la decisione, dovrebbe dimostrare di aver cercato, non trovandola, altra occupazione.

L’accoglimento, anche parziale, di alcune di queste correzioni non avrebbe toccato le richieste della Commissione Europea, ma avrebbe avuto il pregio di rendere più razionale il nuovo criterio imposto dalla procedura di infrazione.

Eufranio MASSI


Source: Dottrina del Lavoro

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