
La Corte costituzionale, con la sentenza n. 31 del 20 marzo 2025, chiarisce che il Reddito di cittadinanza (Rdc) – abrogato a decorrere dal 1° gennaio 2024 – non ha natura assistenziale, non essendo diretto «a soddisfare un bisogno primario dell’individuo»: si tratta, infatti, di una misura di politica attiva per l’occupazione, di carattere temporaneo, soggetta a precisi obblighi e soprattutto a rigide condizionalità che, se disattese, determinano il venir meno del diritto alla prestazione.
La Corte, in termini di interpretazione costituzionalmente orientata, ha precisato che a questa conclusione non è «d’ostacolo la recente sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea, grande sezione, 29 luglio 2024, nelle cause riunite C-112/22, C. U. e C-223/22, N. D. In tale pronuncia, infatti, la Corte di giustizia, come di consueto, ha interpretato il diritto dell’Unione, ma non ha operato un sindacato sull’esattezza, o no, dell’interpretazione del diritto nazionale, quale offerta dal giudice del rinvio pregiudiziale», che invece aveva ritenuto la natura assistenziale del Rdc.
Del resto, «se è indiscutibile che alla Corte di giustizia spetta l’interpretazione dei trattati e del diritto derivato, al fine di assicurarne l’uniforme applicazione in tutti gli Stati membri, è parimenti indiscutibile che l’interpretazione della Costituzione è riservata a questa Corte, così come la funzione di nomofilachia del diritto nazionale lo è alla Corte di cassazione, essendo orientate ad assicurare anche la certezza del diritto».
La sentenza ha quindi precisato che non può essere accolta la questione prospettata in via principale dal giudice rimettente, che porterebbe, in sostanza, ad annullare completamente il requisito di radicamento territoriale in base alla residenza, rendendo sufficiente solo quello, per i cittadini degli Stati membri, del diritto di soggiorno.
Non trattandosi di una prestazione meramente assistenziale, un requisito di radicamento territoriale non determina, di per sé, una violazione del divieto di discriminazione indiretta e delle relative disposizioni del diritto dell’Unione, che pure vengono in considerazione nella questione in esame.
Per quanto un tale requisito ponga di fatto il cittadino italiano in una posizione più favorevole, «non di meno la discriminazione indiretta ben può ritenersi giustificata quando sussistono ragioni che la rendono necessaria e proporzionata», come affermato dalla stessa Corte di giustizia in più occasioni.
Peraltro, la recente raccomandazione del Consiglio del 30 gennaio 2023, relativa a un adeguato reddito minimo che garantisca l’inclusione attiva, consente chiaramente agli Stati membri, per l’accesso a prestazioni aventi struttura e funzioni analoghe a quelle del Rdc, il ricorso al criterio selettivo basato sulla residenza protratta, anche in considerazione dell’esigenza di salvaguardare «la sostenibilità delle finanze pubbliche», purché «la durata del soggiorno legale sia proporzionata».
Tuttavia, nonostante tali considerazioni, il periodo di residenza decennale pone una barriera temporale all’accesso al Rdc che trascende la ragionevole correlazione con le finalità di quest’ultimo.
A differenza di altre misure, come l’assegno sociale che questa Corte ha ritenuto correlate allo «stabile inserimento dello straniero in Italia, nel senso che la Repubblica con esse ne riconosce e valorizza il concorso al progresso della società, grazie alla partecipazione alla vita di essa in un apprezzabile arco di tempo» (sentenza numero 50 del 2019 e ordinanza numero 29 del 2024), il progetto di inclusione previsto dal Rdc non guarda, come invece le suddette misure, al concorso realizzato nel passato, ma alle chances dell’integrazione futura, mirando alla prospettiva dello stabile inserimento lavorativo e sociale della persona coinvolta.
In quest’ottica il gravoso termine del pregresso periodo decennale non appare ragionevolmente correlato alla funzionalità precipua del Rdc e si pone in violazione dei principi di eguaglianza, di ragionevolezza e proporzionalità di cui all’articolo 3 della Costituzione (con assorbimento di tutte le altre questioni).
La ragionevole correlazione con la misura del Rdc si realizza, invece, sostituendo il termine decennale con quello di cinque anni, che si presenta, per diverse ragioni, «come una grandezza pre-data idonea a costituire un punto di riferimento presente nell’ordinamento».
In questi termini, «si ricompone armonicamente anche il rapporto con la sentenza della Corte di giustizia», prima richiamata, dal momento che, in riferimento a qualsiasi cittadino, sia italiano, sia degli altri Stati membri, sia di Paesi terzi, viene espunto il requisito della residenza decennale, ritenuto, da tale sentenza, contrastante, in riferimento però ai soli cittadini di Paesi terzi, con l’ordinamento dell’Unione europea.
Si evita così, oltretutto, l’insorgere di una discriminazione alla rovescia in relazione ai cittadini dell’Unione europea, che rimanevano ancora soggetti al termine decennale.
Fonte: Corte Costituzionale
Source: Dottrina del Lavoro